martedì 12 dicembre 2006

FATA D'ARGENTO

FATA D’ARGENTO

L’indomani Drago sarebbe arrivato. Michele guardò Menico, Roccu e Pasquale. Avevano fatto un buon lavoro. A Rizziconi rendevano molto più sdraiati sui trattori, che in piedi a dare le schifose olive, i secolari. Certi avevano tronchi così larghi che ci volevano le mani di due uomini per abbracciarli interi. Dicevano che alberi così potevano avere anche quattrocento anni, ma qualche vecchio in paese credeva ce ne fossero anche del tempo dei Greci. Non che gliene fregasse molto, ai ragazzi. Loro prendevano la sega circolare, la plastica per imballare l’albero, e andavano dritti dritti sulle radici. Usavano anche la scuotitrice. Poi, pieni di terra rossa, con tronchi pesanti e lunghissimi, i trattori dei ragazzi uscivano dall’uliveto come ci erano entrati. A volte, la domenica che si beveva insieme al bar, ci chiedevamo perché nessuno mai parlasse, eppure ci avevano visti tutti. Non era necessario mostrare autorizzazioni false. A nessuno interessava. Quando qualche macchina della Legge passava, noi eravamo già imboscati, alberi e trattori. Chissà che se ne facevano a Treviso, di un ulivo calabrese azzoppato. Però pagavano bene. Anche duemila euro. Certo, c’erano i regalini per Beppe, ma ce n’era abbastanza da stracampare noi e famiglia. Un lavoro pulito, che non dava fastidio a nessuno. E poi, gli ulivi mica potevano parlare, no? Mi svegliai che ero sulla piazzola della Firenze Nord. Tutto normale, sembrava. Erano solo le dieci di sera. Il sonno era durato troppo poco. C’era ancora da portare il bestione, l’enorme tir cassonato giù per l’Italia, fin quasi a Reggio. Lì, come al solito, avrei trovato Michele e gli altri che lavoravano. Il tempo di caricare, sistemarci la cosa da amici, e ripartire verso Castelfranco. Brusadin era stato chiaro: solo piante di qualità, forti, e che fossero tagliate da esperti, “Perché – diceva – poi finisce che muoiono subito ai primi freddi!” Ricordavo quasi mai i sogni, quella volta lì qualcosa di strano mi occupava la mente, un’immagine. Doveva essere stato questo a guastarmi la dormita. Andai all’Autogrill a prendermi tazza di caffè e panino, e anticipai di un’ora la partenza. Guardai la scritta Drago in cima al camion. Drago ero io, che poi mi chiamavo Beppe. Salii su, armeggiai tra cambio e frizione in una gran manovra, mentre bevevo le ultime gocce di caffè, e mi buttai in autostrada in direzione Sud. Per una volta, Isoradio tranquillizzava sul tempo e le code. Roma si avvicinava. Poi Napoli, Salerno e il Cilento, e via per il Tirreno, da Lamezia fino a Gioia Tauro. Poi, quella strana notte di settembre, la rividi. Dovevo essere verso Palinuro, quando l’immagine che mi aveva tolto il sonno era riapparsa. Stavolta era nitida. Esile, un vestito impalpabile, ricamato. Ornato di foglie di ulivo. Non pareva di questa terra, parlava con gli occhi. Mi sedeva di fianco, in silenzio. Io atterrito, mentre lei, con un gesto doloroso si allargava le falde dell’abito, scoprendo la pelle argentea e ferita, chiazzata di sangue. Fu lì che disse: ”Non ucciderci più”. Quasi inchiodai sul guard rail dal terrore, dovetti fermarmi. Quando ripresi il viaggio, non c’ero più con la testa. Me ne fregavo di Brusadin, dei suoi soldi, e pure delle mazzette che mi allungava Michele. Iniziavo a sentire la voce degli ulivi.
GIANLUCA IOVINE

Nessun commento: