sabato 16 dicembre 2006

COSA 'E NIRONE

GIANLUCA IOVINE

COSA ‘E NIRONE

“Signor Commissario, il fatto è, vedete, che a me nun me piace stà sulo. A me stà sulo me fa ammurbà. Anzi, se proprio ve l’aggia dicere, je, e stà sulo tengo proprio paura.” Pascalone Canessa diceva questo, e dondolava inquieto il corpo flaccido, le braccia inchiodate alla scrivania. Di tanto in tanto si fermava, asciugandosi con un fazzoletto di stoffa il sudore. Poi con quelle sue dita grosse e giallastre si accendeva una MS, fumandola nervosamente in aria. Gianni Romualdo ne aveva visti tanti di malavitosi, ma Pasquale Canessa fu Gerardo, per tutti Pascalone, era un caso a parte. Ogni mattina se ne stava con gli amici al Caffè Nacatola all’angolo, sorridendo al sole con gli occhiali neri e la testa rasata. Si accompagnava ai due fratelli Santoro, a Peppe Migliardini, a Giovannino Rende e a Geppino Russo. I turisti vedevano sei amici che bestemmiavano sul Napoli in B, ma i poliziotti sapevano che erano sei degli uomini del clan Fraticelli alla Torretta, i più scafati e feroci. Pascalone era il luogotenente di zona, e da Santa Maria della Neve a San Filippo a Chiaja, da Via Crispi a Santa Maria in Portico non si muoveva niente se Pascalone non parlava. “Era un periodo di crisi nel commercio, quel settembre 2003, vero? “ “Commissà, è ‘o vero! Nun se puteva fa ‘na lira. ‘E puteche nun faticavano proprio! Allora nuje ‘nce ‘nventajime Nirone.” E già, Nirone. Un bel pitbull allenato al vecchio cinodromo, a rincorrere ogni tipo di bestia, puntualmente dilaniata. Per tre anni un divo dei combattimenti tra Casalnuovo e Acerra, Pascalone si era tolto lo sfizio, comprandosi quel bel canillo bianco e nero. Lo aveva ammaestrato per bene, e piano piano ci si era affezionato. “A ggente se penza ca nuje d’a malavita nun tenimme paura. E invece.... Ce futtimme ‘e paura, ‘on Giuann! Accussì, je jevo pe’ strada c’o canillo”. Un giorno, mentre chiedeva i soldi a Zhang Tse, al negozio di pronto moda a Viale Gramsci, Zhang prese il coltello. Allora, Pascalone disse solo:” E’ cosa ‘e Nirone! Nirò, vaje!” E Nirone andò, e prese Zhang alla gola senza mollarlo un attimo. Poi coi denti sporchi di sangue, si accucciò ai piedi di Pascalone. Pasquale Canessa diede uno sguardo di disprezzo, l’ultimo, a Zhang, sputò saliva e nicotina sul suo corpo e se ne uscì. Pochi giorni dopo era in galera, per omicidio. E mentre Nirone veniva soppresso al canile a chilometri di distanza, Pascalone si appese con pezzi di tela alle sbarre. Non per colpa, ma forse per paura della notte, si era impiccato.

AMIR CHE VENNE DAL MARE

GIANLUCA IOVINE

Amir che venne dal mare

Di quelle mie giornate di bambino ricordo il senso del tempo, uno spazio soffice di ore scandite dal sole. Con Nazim, Fatima, e Mehmet giocavamo nascosti tra le barche capovolte. Immaginavamo enormi balene, mostri dei fondali che inghiottivano caicchi di pescatori. Ridevamo, ridevamo molto, persino della nostra povertà. Ci chiedevamo il perché di tutto: neanche il colore del cedro e della curcuma era scontato. Tutto andava capito, indagato. Per questo qualche notte capitava che non tornassimo a casa. I padri si disperavano, gli anziani guardavano in silenzio il mare. Noi invece cercavamo il filo di quegli strani traffici, di quei movimenti convulsi intorno a barconi e gozzi. C’erano uomini di pelle più chiara della nostra, di fuori villaggio. Oggi so da dove venivano, ma in fondo cosa conta? Oggi è cambiato tutto, potrei anche scordare, e invece non riesco. Li sento che parlano, che urlano, anche; li rivedo mentre si passano pacchi marroni sotto i nostri occhi ridendo sprezzanti… Uno di loro si accompagnava spesso a mio zio Yussuf. Lui era un fratello di mio padre. Quando egli morì gli fui dato in consegna, da noi era normale. Così non ebbi da ridire quando mi disse di raggiungerlo al porto, quella sera. Salutai i ragazzi che stavano giocando con un granchio rosso, e andai giù verso il mare. Mio zio era proprio con quell’uomo che diceva di chiamarsi Aliosha. Scherzavano e bevevano liquore d’anice. Ne volevano dare anche a me, ma non mi piaceva e rifiutai. Poi ricordo solo il buio. Mi svegliò non il sole, ma una donna che tossiva. Dove eravamo noi c’era tanta, troppa gente. Una selva di corpi di bambini anche più piccoli di me, e donne. Poi c’erano uomini. Alcuni erano diversi,da noi: c’erano africani nerissimi di pelle e bimbi dai volti pallidi e gli occhi blu. Alcuni parlavano, altri piangevano soltanto. Certi stavano male, alcuni sudavano e si giravano. Cercavo con gli occhi zio Yussuf, temevo che gli fosse accaduto qualcosa. Non capivo dove eravamo, allora andai su verso la luce che mi feriva gli occhi e trovai un mare diverso. La grande barca piena di uomini e donne dondolava sotto il sole. Gli uomini che avevo visto al porto per giorni erano tutti lì. Io piangendo chiedevo di Yussuf, e uno di loro che conosceva il curdo rise di me, e sputando in terra mi disse che dovevo scordarlo, che era come morto, che non l’avrei rivisto più. Io volevo sapere, avevo solo otto anni, dovevo sapere, e l’uomo di nome Zlatko mi disse nella mia lingua che lo zio mi aveva venduto per una cassa di fumo. Per l’orrore mi sembrava di morire, allora cercavo di non pensarci e di guardare il mare. Eppure, anche se a volte ci seguivano delfini, pesci rondine e gabbiani, sentivo che non era il mare mio. Il mio mare aveva il colore degli smeraldi di Saba, la sabbia chiara come le rocce dell’altopiano. Lo abitavano mostri che avrebbero divorato gli ingiusti e salvato gli innocenti, come diceva il mio povero padre. Innocenti affamati e assetati, da qualche parte in mare. Giorno dopo giorno, quel barcone puzzava. Fu allora che conobbi l’odore della morte. Una madre col figlio, un vecchio, due giovani storpi, e non so quanti altri. Tutti in mare, pasto per i pesci. Dopo sette giorni non avevo la forza di urlare, di bere, di piangere. Trovammo mare grosso, e i nostri aguzzini buttarono via altri corpi di vivi e di morti, finché una notte li vidi agitarsi. Urlavano verso il mare. Sembrava il mostro marino che doveva aiutarci, con gli occhi bianchi di luce. Invece, era una barca di uomini meglio di questi. Una barca grigia e più veloce di noi, che ci sbarrava la strada. Quegli uomini feroci buttarono in acqua tanti, anche me. Alcuni non ce la fecero, anche se gli uomini grigi volevano salvarli. L’amico cattivo di mio zio fu colpito e cadde in acqua, altri si fingevano poveracci, ma io sapevo che non era così. Ci presero dal mare, che tremavamo, e ci diedero cibo e acqua. Poi ci rinchiusero di nuovo, in una casa vicino al mare con le grate. Era vent’anni fa, ed è oggi. Otranto mi ha cresciuto, ma non smetterò mai di pensare al mio mare perduto.

VOLO SENZA ALI

Gianluca Iovine

VOLO SENZA ALI

Il Viaggio che respingi.

L’Airbus si stacca dal suolo, dopo aver divorato la pista. Un’enorme macchina d’acciaio, leggerissima, che sembra avere voglia di andar via da Milano anche più di me. E la pista dall’alto scompare in fretta, mentre leggo la prima pagina del lunedì. Non avrei dovuto essere su questo volo, avevo tanto da fare, in città. Ma in agenzia hanno capito le mie esigenze, e per una volta i colleghi mi hanno ceduto 8 giorni di agosto. Non so come immaginare Negril. Forse palme, lagune, spiagge bianche, ma tutti dicono che la Giamaica ha qualcosa in più. Qualcosa che va oltre le dimensioni e l’aspetto dei luoghi, una terra diversa, forse più sorrisi che alberghi, un posto dove una milanese di trentacinque anni può ancora sentirsi una persona, e non una struttura, o una comparsa da aperitivo. I voli sono sempre una tortura lunghissima. “Come passerò il tempo?” - ti domandi, dopo aver guardato l’orologio, la mappa elettronica, riletto Repubblica, mangiato gli snack e fissato le hostess mentre cercano di essere sorridenti e spontanee, lo sguardo velato di noia. Ogni tanto succede qualcosa, magari un passeggero che dimostra di essere al primo volo, o un bambino che sembra sia salito solo per far venire voglia a tutti gli altri di scendere. Dagli oblò ti guardi giù e vedi poche nuvole bianche e il suolo che quasi sembra non muoversi. Vedi le Alpi e mangi un panino ridicolo, bevendo caffè lungo. Immagini quante volte nella vita hai desiderato un secondo in più per un treno da prendere o un bacio da dare, e non l’avevi, maledizione! Lì, sul Milano – Miami hai tanto di quel tempo…! Un’overdose di tempo, morbido e dolciastro come etere. Ti sembra di mangiarne, di respirare tempo, di nuotarci dentro come un delfino, e contare i singoli secondi camminare sul quadrante. Quando spengono le luci è davvero brutto. Neanche il vicino logorroico resiste, e dorme, come quasi tutti. In quella semioscurità una single di Milano con una convivenza in frantumi da due anni crolla e si vende alla tristezza. Tanti pensano di dover diventare vecchi per rimpiangere. Sbagliato. Passi i trenta e i ricordi ti perseguitano. Strano. Pensi che anche la noia di questo viaggio sarà ricordo. Ma non brucerà come i baci di Marco, o come il suo volto che candidamente ammette di avere un’altra… Poi per fortuna l’aereo, lucente al sole, vira verso la Spagna, ma prima attraversa un bel po’ di Francia. Lo spuntino del pomeriggio e un bel film di Pupi Avati. Un film triste, ma corretto. I film sugli aerei sono sempre troppo corretti. Sono tristi, divertenti o emozionanti il giusto, senza mai andare oltre il limite. Se vuoi un film oltre, devi andare al cinema, e non chiedere a una compagnia aerea di scegliere per te. Ma a quell’altezza, non puoi chiedere niente o quasi, di diverso da quello che hanno scelto per te altri. Una bella metafora, già. Pensi di essere libera, e invece qualcosa o qualcuno sceglieranno per te, fino alla fine. In fondo il film non è tanto male. Solo che vedere Neri Marcorè e la Incontrada cercare di amarsi mentre tu dentro cerchi di pensare solo alla Giamaica, fa un po’ male. Il tempo passa, certo, ma mai in fretta. Fortuna che c’è il bagno, altri dieci minuti andranno via. A fine corridoio quelle tende ci separano dalla Top Class. Noi della Turistica abbiamo meno spazio per stenderci e poggiare i piedi, ma a parità di noia, in prima classe penso sia anche peggio.. Non si vede molto della Spagna, se non qualche fazzoletto di terra di tanto in tanto. Il silenzio in aereo è tranquillizzante. Sto provando a fare un cruciverba, ma non mi viene in mente nulla. Mi fermo al 18 orizzontale: grave degenerazione cellulare. La parola è sinistra, soprassiedo. Finalmente dormo, ma non molto. Non ricordo quasi mai i miei sogni, da qualche mese a questa parte. Fossi stata a Milano, avrei sognato un viaggio. Dunque, adesso se avessi sognato, forse avrei visto il tram di Cordusio girare come un ventaglio, evitando al solito qualche ritardatario in mezzo ai binari. Forse avrei sognato la Milano che preferisco, quando albeggia ed è silenzio, e vedi solo poche persone in giro, aprire i negozi e mettere in moto la città. Avrei forse sognato il Caffè San Carlo e quel vorticare di tazzine che in pausa pranzo diventa un’abitudine degli occhi. Ma non ho sognato. Ora c’è il mare, e ce ne sarà per ore, almeno fino a quando non avremo visto le coste americane. In questo momento, forse saranno i nervi, non ho più voglia di vedere Negril, anzi vorrei tornare nel mio guscio sicuro. Nel mio letto forse sarei meno sola e meno debole. Forse. Guardo i pannelli di plastica, e giro con gli occhi, guardando tutti i passeggeri. Ho sempre paura di trovare un sospetto, un terrorista pronto a farsi esplodere. Ho sempre un momento di paura nell’arco di un viaggio. Un momento in cui penso che l’aereo cada, ora che la mia vita è incompiuta, che ho ancora un casino di cose da fare, e che non ho ancora dato una sterzata alle mie scelte. Poi arriva l’oceano. Comincia il tempo più lungo. Parte anche il secondo film, i soliti supereroi. Gli X-Men. In un modo o nell’altro sulla cartina elettronica il disegno dell’aeroplanino cammina sulla rotta verso la Florida. Poi comincia un’accelerata del tempo. L’America prende forma sotto di noi. Pensi ai suoi spazi, all’enormità di cose stupide e fantastiche che contiene, alle città, a volte senza storia, ma in fondo affascinanti per questo, come terra vergine. Città che appartengono a tutti, anche a chi le vede una volta sola con una digitale al collo. Immagini New York, Chicago, Washington e San Francisco, e tutte le altre città mito che da prima di nascere esistono già nel tuo mondo di appartenenza. Le immagini, le foto, il web e la tv ripetono all’infinito che esiste l’America. Così ci credi anche se i tuoi occhi non l’hanno mai vista. Semmai, ti convinci che forse Milano potrebbe non esistere, e certe volte dovrebbe non esistere. Come quando è crudele, ti lascia sola, ti uccide di indifferenza e poi sorride finta chiedendoti se serve una mano, augurandosi che tu non risponda mai sì... Milano, l’Italia. Chissà che ora è là, chissà cosa sta facendo Marco...Chissà se Lisa è all’aperitivo del Gioia 69, a bere mojito.... Magari Giorgio stasera non ha visto Marinella... e forse Lory e Giovanna sono a fare straordinario in agenzia... Ma non devo pensarci, non devo.. Io ho Miami, ho Negril. Stasera tardi sarò a prendere un drink in alto sulla scogliera, forse a guardarmi un giamaicano ben fatto e a pensare da quant’è che Marcello e Mario non vedono una palestra... Sarò lì che guardo il mare, a pensare che la vita è bella, proprio perché non la capisci, perché non ti si spiega davanti subito. La vita è una carta arrotolata come un papiro antico. La decifri pian piano, e neanche da sola. Spesso muori senza averci capito niente ancora. Non sai perché, ma la ami, come un uomo che ti fa soffrire. E più te ne fa, più lo trovi adorabile. Vorresti sparargli, certe volte. Ma poi sai che è lui quello. Quello che ti rischiara le giornate buie. Il tuo sole coraggioso che va in giro a novembre. Dio, quanto tempo è passato, devo essermi assopita, pensando a Marco. Incredibile, dall’alto le autobotti, i furgoni e le navi sembrano le macchinine Hot Wheels. Miami è ordinata, geometrica, ogni villetta ha il suo giardino, sembrano tutti felici da quassù. E scendiamo, lo annuncia la hostess. Ci siamo. Con una discesa dolce per un aereo così possente, vediamo Miami. Una voce mi sveglia, lei è bella come l’hostess, ma non è vestita di verde e blu. E’ vestita di bianco. Io sono chiusa in un cilindro lucente. Ascolto perplessa e mi chiedo dove sia finita Miami, l’aereo, e tutti i passeggeri. Dove siano la dogana e i poliziotti, la pubblicità e l’aria condizionata. La voce dice: “Come va? Si sente bene? Oggi sembrava più in forma del solito, signora!” Poi un tipo che non è un pilota e neanche un doganiere fa: “Siamo al secondo ciclo di terapie, e lei risponde benissimo. Certo, le nausee continueranno, e altri capelli le cadranno, purtroppo, per un po’ ancora. Ma lei ha coraggio. E se continua ad averne, darà lo stesso coraggio alle sue cellule per combattere il male.” Ho paura. Richiudo gli occhi. Passerà presto tutto, se è solo un sogno. Riprenderò il volo. Dopo verrà Montego Bay. E poi il bus per Negril. E sarà vacanza, finalmente. Sarà libertà. Riapro gli occhi, ma rivedo ancora la stanza del San Raffaele. Ora li richiudo.

Gianluca Iovine Napoli, 15 luglio 2005

L'UOMO ALL'ANGOLO

Gianluca Iovine con Claudia Carlino

L’UOMO ALL’ANGOLO

L’amore non ha tempo.

L'uomo all'angolo vende fumo e frittelle. Sciroppo d'acero e zucchero sulle ferite dei ricordi. Domani smetterà di vendere. E' stanco, ha deciso che lascerà la strada per i prati. Vede una ragazza bruna camminare con passo affrettato ma lo stesso cerca di attirare la sua attenzione. La ferma con un colpo di tosse e un sorriso imbarazzato. La ragazza si era già accorta di quell'uomo all’angolo di strada che vendeva frittelle, ogni mattina. Lo guarda. Gli sorride. e comincia proprio lei a parlargli, sommessamente, ma con determinazione. “Io lavoro come voi, qui all'angolo. Proprio li, in un ufficio al secondo piano di quel palazzo rosso, di fronte alla fermata del tram.... Ogni mattina vado a prendere una tazza di caffè in quel bar lì" "Ecco perché. Ma perché vi vedo così sola? Tenetele, non sono fiori, ma profumano. Ve le regalo. Vi vedo andare per la vostra strada, sempre diritta, anche quando piove. Non vi curate del vento, del freddo. Sembra che per voi i giorni siano davvero tutti uguali. Vedete, invece i giorni sono proprio come frittelle. Sono uguali solo all’apparenza. Il sapore, il profumo, il calore, le rendono diverse, proprio come un incontro, un colpo di sfortuna o un sorriso può cambiare una giornata o una vita.“Non sono sola. A farmi compagnia è proprio il profumo delle vostre frittelle. Sapete ? Questo rende anche le mie giornate che credetemi, sono tutte uguali e vuote, più vive, diverse tra loro.” ”Ora riprendete a camminare. Scusatemi, se potete, per l’insistenza. Camminate, e mentre sentirete le mele e la crosta sciogliersi, lo zucchero trasformarsi in un respiro gioioso, pensate all'invisibile, a ciò che avete sotto agli occhi e che non vedete mai. Pensate anche un poco all'uomo all' angolo. Perchè domani andrà via e forse solo così capirete tutto di lui.” Lei attraversò la strada. L’indomani tornò, e vide che l’uomo stava raccogliendo e ordinando le sue povere cose. Alzò lo sguardo solo per cercare di incontrare il suo, e le disse:”Perchè anche oggi non mi guardate negli occhi?” ”Oggi preferisco guardare le vostre labbra, il modo che avete di scandire le parole, di affermare le vostre idee. Io non credo voi abbiate fatto il venditore di dolci di strada tutta la vostra vita!” ”Vorrei il vostro sguardo. Così vedreste nuotare nei vostri occhi i miei. Vi spiegherei senza parlare che è vero, che non è come sembra. Che a volte la vita ci mette in gabbia.” Per nulla intimorita dal tono dell’uomo, lei rispose:” Chissà allora se qualche sorriso cambierebbe i vostri giorni come il profumo delle mele fritte ha cambiato i miei !” “Eh, un sorriso può cambiare un giorno, ma non fa tornare in vita una moglie. Elise, che Dio l'abbia in gloria, almeno ora è felice. Lei non sopportava che un buon professore di lettere si fosse ridotto così. Professore !? Professore, siete infelice, voi siete infelice ora? ”Io ora sono almeno l'unico infelice. E’ questa la mia felicità. Finché era viva, mia moglie soffriva. Soffriva anche ricordando, ogni giorno, i tempi di quando abitavamo a Dresda. Prima della guerra. In quegli anni, ancora a nessuno veniva in mente che gli Ebrei fossero una razza diversa, dei sottouomini. Quando la gente cominciò a isolarci, iniziammo a perdere tutto. Anche la dignità. Anche il sorriso. Noi però fummo fortunati a scappare dalla Germania in tempo, a ripartire da qui. Caracas provò ad aiutare anche noi, come aveva fatto con altri. Provate lo stesso a sorridermi, come Caracas ci sorrise, trent’anni fa. “Potrei provare, sì! Perché io sorrido passando da qui, sorrido sentendo il profumo delle vostre frittelle anche a ricordarlo per il resto del giorno. Sola, sorrido senza muovere il mio viso, con i miei occhi.” “Sento come se le rughe andassero via da me a ogni vostra parola. Sento come se Dresda tornasse a una domenica di maggio, con le campane del Santo. Sapete, parlare con Voi mi riporta a tempi felici.” “A Dresda non sono stata mai, non credo che ci andrò Non conosco altre città se non Caracas così come non conosco davvero Voi. Insegnatemi a conoscere quello che voi conoscete. Lasciatemi vedere coi vostri occhi. Allora potrò dire di conoscervi.” L’uomo sorrise ancora, ma questa volta fra le lacrime. Poi disse:”Sapete, morirò solo tra sei mesi. Eppure è un tempo sufficiente per sentire altri profumi della vita. Ecco, solo questo. Vi sarei grato se mi regalaste altri sorrisi. Ora andate che al lavoro vi aspettano. Ora sapete cosa c'è dietro questo fumo dolciastro....” “Sei mesi sono tanti per essere felici. Per un sorriso o una frittella o anche solo per una passante un po’distratta”. Quel maggio del 1969 iniziava la breve storia d’amore di Joachim Rosenthal e della sua seconda moglie Yvonne. Gli tenne compagnia gli ultimi sei mesi, un tempo felice nella vita di quel professore di lettere divenuto venditore di frittelle.

Gianluca Iovine Napoli, 27 gennaio 2006

ETOILE DE LE HAVRE

Gianluca Iovine

ETOILE DE LE HAVRE

Il Mare, l’orrore

Le onde ghermivano la prua della nave francese, con spaventosa irruenza. I topi di bordo erano usciti allo scoperto tutti, ma il Capitano Ardennes neanche se ne accorse. Un fulmine maligno spezzò l'albero maestro facendo rovinare la vela in basso. Rimasero coinvolti due ufficiali di bordo e cinque marinai semplici. Urlavano come bestie al macello, ma il turbinare del vento tutt'intorno ben presto cancellò ogni suono. Fu in quel momento, che tutti quelli ancora vivi, invece di trovare a dritta le coste di Hispaniola, videro avvicinarsi una nave tra le nebbie. Al timone una donna, o meglio, quel che un tempo doveva essere stato una donna. Gli abiti lisi ma di foggia sontuosa, contrastavano tristemente con le ossa marcite dal tempo, i gioielli, lucentissimi, spiccavano nel cielo di tenebre. Sempre più vicina, vicina... Poi, la Etoile de Le Havre piombò in un vortice, e parve a tutti di veder sorridere quello scheletro sul ponte di comando.Mosse le falangi adunche come per un crudele addio. Poi fu solo mare, urla, e spezzarsi di legni.

Gianluca Iovine Napoli, 12 luglio 2005

IL CERCATORE INFELICE

Gianluca Iovine

IL CERCATORE INFELICE

All' unico filo d'erba magico tra i prati del mondo

C'era Malcolm e c'era un filo d'erba verde verde. Ogni mattina Malcolm che era un ragazzotto ben fatto, con i capelli biondorossi e qualche lentiggine dispettosa, andava nei prati. Il perché nessuno lo sapeva, neanche Mamma Paula. Malcolm sì, che lo sapeva: cercava una musica magica. Così staccava ogni filo d'erba, il più verde, il più bello, lo accostava al labbro e suonava. Mai era riuscito a ritrovare il suono che Papà Jackie gli faceva sentire nei giorni d'estate in brughiera, prima che l'orco nero se lo portasse via. E Malcolm era tanto infelice. Una volta Malcolm scorse una coccinella sul filo d'erba e volle suonare lo stesso. Quella piangendogli disse: "Non farlo ancora, lo stelo è mio, non troverai qui quello che cerchi!". Un giorno trovò uno stelo vicino a una mucca, imbrattato di letame, e volle provare lo stesso, ma la mucca gli disse: "No, ragazzo, non sarà certo qui che troverai quello che cerchi, e anzi cambierai te stesso sporcandoti!". Malcolm provò ancora mille e mille volte, ma la musica non c'era, o era flebile, o alta, o stridula, o bassa....Venne un giorno che Malcolm non cercò più, e si ritrovò semplicemente a ripetere il fischio di Papà Jackie. Successe una cosa prodigiosa: riapparve inquietante l'orco nero, ma stavolta aveva lacrime che gli rigavano il volto. Gli fece cenno di avvicinarsi e Malcolm con paura accettò. Gli disse:" Ragazzo, ti ho rubato via un padre, ma mi è toccato farlo. Ti ha però lasciato la cosa più preziosa al mondo: la sua musica. E' inutile che consumi scarpe e che laceri i vestiti a inseguirla altrove perché la musica è già in te! Tuo padre non tornerà più ma tu avrai le note nella tua anima per ricordarlo" E sparì in una nube nera.Malcolm capì e cominciò a sentire quelle note uniche rapirgli la testa e il cuore, il sorriso tornargli ed il sangue sciogliersi.I prati tornarono a essere solo prati e le mucche nient'altro che mucche. Da allora in poi, nessuno chiamò più Malcolm il cercatore infelice.


Gianluca Iovine Napoli, 30 aprile 2005

venerdì 15 dicembre 2006

ALLA RINGHIERA







“Alla ringhiera”

La fontana con il torello buttava fuori acqua come ogni giorno. Maria Montano e suo figlio litigavano come sempre, era già passato il carrello dei giornali. Gina Floris vedova Macaluso dalla sua ringhiera di via della Consolata vedeva il mondo. Di Macaluso Luigi autotrasportatore, le era rimasto poco: aveva dato via quasi tutti i vestiti, tranne il doppiopetto blu delle domeniche insieme a Torino. Restavano le vecchie foto: I piccioni a Venezia, da sua sorella a Settimo Torinese, un bagno nel canale a Turbigo, la cascina di Rivoli. Spesso lo sguardo le cadeva sulla mano: dell’anello di fidanzamento restava solo un segno chiaro sulla pelle. Era stato sei mesi fa. Sera tardi, via Garibaldi. Una cena con le amiche, l’unica uscita del mese. Da una laterale erano sbucati in due sul motorino. Quello seduto dietro alto, forte. L’altro più magro, con gli occhiali scuri e un po’ di barba. Il ragazzo alto scende e cerca di strapparle la borsa. Non ci riesce, allora le tira un ceffone tremendo. Le urla con degli occhi umidi, giallastri: “Dammi quello che hai, i soldi… E poi quell’anello, sì, dammi l’anello!” Gina aveva provato a resistere ancora. Ma poi quello lì le aveva puntato il coltello a serramanico, chiamandola vecchia di merda, lei che ancora faceva le notti in ospedale alle Molinette, e puttana, anche se l’aveva fatto solo con Luigi, dopo sposati! Ma lui aveva un coltello… Gina non se sarebbe mai dimenticate, le lacrime. E non avrebbe scordato loro, che ridevano di lei ferita. Quello che guidava il motorino aspettò il complice per ripartire, insultandola ancora e ridendo erano schizzati via. Gina quella sera non sapeva se le facesse più male la faccia o il cuore. Decide di chiudere le imposte. Quella mattina alla ringhiera non davano niente di interessante.

GIANLUCA IOVINE

giovedì 14 dicembre 2006

Vorrei

Vorrei scuotermi dal torpore in cui sto scivolando. Il freddo forse non c'entra. E' che sentire le cose mentre si ripetono, vederle trasformarsi in abitudini brucia l'anima. Ma evidentemente, non c'è scelta. Ogni tanto provo un arrembaggio: spesso assomiglia a un viaggio che vorrei fare e che forse non farò mai, o anche a un'emozione che vorrei riprovare, come stare fermo nella neve dell'alba, senza pensare. Ma non c'è mai tempo. C'è la corsa, quella brutta specie di corsa che non porta da nessuna parte, un movimento immaginario che fa solo stare fermi. Così, invece di spostarmi oltre, sento che sto scendendo silenziosamente giù.

mercoledì 13 dicembre 2006

Camminare a Milano

Ieri sera ho rivisto Milano. Niente metro rossa da Cordusio a Molino Dorino. E allora fuori nel freddo, a camminare. Da Santa Marta ai tram del piazzale, verso il Duomo, ancora in restauro. Enormi i globi di luce di Natale, e invisibile nel suo anfratto alla Rinascente, il barbone sotto i portici. Vetrine riempite di pupazzi orrendi, satira politica scialba. Le bancarelle siciliane e lombarde, luci bianche e il freddo che trovi solo a Natale. Via Vittorio Emanuele, il cinema e la Feltrinelli, e via Montenapoleone. Un tuffo surreale nella ricchezza e nel fatuo. Chissà se avere un Valentino rosso addosso a Capodanno dà la felicità. E' lunga via Montenapoleone, pensare che in quel palazzo c'erano i patrioti del Risorgimento. Tutto dura sempre attimi troppo brevi. Tempo di metro gialla, torniamo a sottoMilano.

martedì 12 dicembre 2006

NASCERE BIANCO, NASCERE NERO

Io sono nato caporale: dove ero io, era l’unica scelta. Il 1980 me lo ricordo. Anni difficili, per noi su al Monte. A tredici anni, tutto vorresti, tranne arare un campo e fare solchi sotto il sole su terreni di pietra, e invece ti trovi lì, la schiena spezzata, e tuo zio che ti grida infamie bastonandoti le gambe. Sei solo un ragazzo, ma l’odio già ti fa schiavo. Inizi a odiare il sole che sorge dai vetri delle camerate dove si dorme in tanti, e lo sbuffare del trattore tra i sentieri. Odi i cani che latrano, e i dialetti dei mille migranti che vengono qui da luoghi lontani, a litigarsi il pane. Cresci in fretta, ti spunta una barba dura, e fai a vent’anni certe rughe che in città non vedi. Rughe che neanche i pescatori di Gioia, se li hai visti mai, hanno. Perché sotto quelle rughe in fronte, c’è tanta di quella rabbia, e tanto sole amaro, che ti sorprendi non venga fuori tutta insieme, come a un cane di strada, diventando una buona volta un coltello a serramanico infilzato in qualche pancia. E forse a venticinque anni pensavo di aver capito finalmente come domarlo, tutto quell’odio. L’unica cosa che mi piaceva del lavoro era il potere. Già. Comandare un gregge terrorizzato dal lupo, e scoprire il piacere di essere io, quel lupo. Cinquanta ? Cinquecento ? Chi non si china agli schiaffi, obbedirà al coltello. Se solo l’odio non mi avesse preso, forse oggi sarei lì fuori. Era mattina, ad Avellino, in una cella frigorifera. Quando vennero ad aprirci molti erano già morti. Anche Hassan il marocchino. Giocava bene a carte, era di Essaouira. Ci salvammo Tebogo e io, Babu. Accra mi mancava, scelsi comunque Rosarno. In Ghana se dicevi Babu rispondevano scuola. Ero maestro. I ragazzini si alzavano e mi salutavano. Non avevano quasi mai le scarpe, ma le mamme ci tenevano che camicie e pantaloncini fossero pulite, appena coperte di quella polvere rossa che ti segue quando vieni a piedi dai villaggi. A 32 anni sembrava un sogno, e la brutta faccia di Mommu non mi spaventava. Mi sbagliavo. Ci radunarono di mattina nei campi, ci tolsero tutto, i documenti a chi li aveva.. Caporali ce n’erano, ma lui era il diavolo. Girava con un coltello, urlava, picchiava. Se avevi un amico colpiva lui per atterrire te. Le giornate negli aranceti della Piana erano interminabili. Il cielo aveva l’azzurro del Ghana, ma la schiena bruciava di un sole diverso. Un sole crudele, che non smetteva di ricordarci che nelle mani di Mommu eravamo niente. Sei anni lì, dormendo alla vecchia fabbrica. Alla puzza di fogna, di cibo marcio e sudore mi ero abituato. Noi anziani aiutavamo le reclute, spesso di Sofia e Tirana. A volte riuscivamo a evitargli le bastonate, raccogliendo noi il loro. Se ne accorgevano e finiva male. Una mattina diedi un po’di acqua a Dijan che stava male. Venne Mommu, negli occhi un odio nero, più della mia pelle. Sapevo che avrebbe colpito alle gambe. Quella volta non fu così. Urlò qualcosa nel dialetto dei monti. Prese il coltello, si tagliò il pollice e me lo strofinò in viso. Potevo sentire l’odore del sangue e della mia paura. Poi, una puntura, e un fuoco che mi divorava, mi sentivo sempre più debole. Vedevo il coltello piantato nel mio corpo. Prima di chiudere gli occhi lo sentì ridere. Pregai Allah che avesse pietà della sua anima empia e mi regalasse per l’ultima volta il cielo di Accra.
GIANLUCA IOVINE

A VOLTE TI UCCIDE IL PESO DEI SOGNI

Oltre il termitaio di cemento delle case sventrate, delle verande di vetro e cemento, dei mattoni rossi, ci sono file di panni stesi che aspettano raggi di sole lunghi un sempre. I secondi piani affacciati sul mondo del niente, i progetti fatti a pezzi dalla macelleria della vita. Quello che resta, delle speranze di tante famiglie qui a Gioia, è nascosto proprio nell’anima di questi mattoni. E se per altri è vergogna, per la gente di qui è trofeo, ciò che resta del sogno familiare, a volte realizzato fuori tempo massimo. Antonietta forse pensava cose così, o forse no. Non aveva studiato molto. Aldo aveva un piccolo bar, lei lavorava alla cassa, i figli piccoli Raffaele e Ippolito aiutavano come potevano. Una vita normale, lavorando non si sarebbe mai diventati ricchi, ma almeno non mancava niente. Insieme ogni domenica Aldo e Antonietta contavano i soldi. Era come un gioco. Facevano i cilindri di carta con le monete da 100 e da 50 lire, e i pacchetti da mille, cinquemila e diecimila lire. Passavano le stagioni, quelle del silenzio e quelle del piombo, delle proteste e dei braccianti, dei politicanti e di nuovo del silenzio. Il caffè piaceva a tutti. Servivano tutti, anche se poi i capifamiglia spesso non volevano pagare, e allora che potevi fare? Sorridevi, ma di quei sorrisi spezzati. Non erano solo le stagioni a pesare sulle spalle e neanche solo le tasse. Pesava più di tutto il sogno. Anche i sogni pesano a Gioia, perché sono di cemento pure le idee. E se uno ha deciso che Raffaele che ora ha vent’anni deve avere la casa per mettere la testa a posto e andare a vivere con Maria, allora bisogna fare i soldi. Le fondamenta e il primo piano c’erano già, pure le scale avevano cominciato a prendere forma. Non era una casa bella, ma era una casa forte. Antonietta e Aldo speravano di vederla presto riempita di mobili, ceramica, argenti e soprattutto bambini da crescere. Perché i vecchi vivono nei bambini. E sarebbe stato bello un giorno arrivare a settant’anni e cullare un piccolo Aldo o una piccola Maria Catena. Ma è difficile tenere in aria come fosse un palloncino rosso il tuo sogno, se è di cemento. Pesa troppo, cade giù, e tu sotto di esso. Non fu solo lo strazio di trovare quel brutto giorno del 1979 Aldo morto del letto, no. Antonietta capì che in quel momento tutto stava per sbriciolarsi. Restò Ippolito, che aveva 18 anni e il carattere forte del padre. Raffaele a ventun anni prese la valigia e andò da quegli amici suoi in Germania. Qualcosa la sapeva fare come muratore, il diploma di ragioneria lì non serviva. E partì, lasciando pure Concettina, che non volle più sposare. Sogni sempre più appesantiti, fragili, divelti come cancellate mangiate dalla ruggine. Antonietta guardava le fotografie di Aldo e anno dopo anno contava i soldi. Prendeva qualcosa, e i muratori costruivano. Poi un giorno, aveva solo vent’anni, povero figlio, Ippolito lo trovarono i Carabinieri in una vecchia cisterna con la siringa ancora in vena. Morto di tristezza. Antonietta avrebbe voluto morire pure lei. Ma il dolore preferisce tenerti vivo e rigirarti. Restò viva sulla poltrona. Raccontano che di sera si metteva nella casa costruita a metà e cantava come una nenia la marcia nuziale al figlio. Contava sempre i soliti soldi. Anche se il bar era chiuso da un pezzo, e i sogni non volevano più staccarsi da terra.
GIANLUCA IOVINE

FATA D'ARGENTO

FATA D’ARGENTO

L’indomani Drago sarebbe arrivato. Michele guardò Menico, Roccu e Pasquale. Avevano fatto un buon lavoro. A Rizziconi rendevano molto più sdraiati sui trattori, che in piedi a dare le schifose olive, i secolari. Certi avevano tronchi così larghi che ci volevano le mani di due uomini per abbracciarli interi. Dicevano che alberi così potevano avere anche quattrocento anni, ma qualche vecchio in paese credeva ce ne fossero anche del tempo dei Greci. Non che gliene fregasse molto, ai ragazzi. Loro prendevano la sega circolare, la plastica per imballare l’albero, e andavano dritti dritti sulle radici. Usavano anche la scuotitrice. Poi, pieni di terra rossa, con tronchi pesanti e lunghissimi, i trattori dei ragazzi uscivano dall’uliveto come ci erano entrati. A volte, la domenica che si beveva insieme al bar, ci chiedevamo perché nessuno mai parlasse, eppure ci avevano visti tutti. Non era necessario mostrare autorizzazioni false. A nessuno interessava. Quando qualche macchina della Legge passava, noi eravamo già imboscati, alberi e trattori. Chissà che se ne facevano a Treviso, di un ulivo calabrese azzoppato. Però pagavano bene. Anche duemila euro. Certo, c’erano i regalini per Beppe, ma ce n’era abbastanza da stracampare noi e famiglia. Un lavoro pulito, che non dava fastidio a nessuno. E poi, gli ulivi mica potevano parlare, no? Mi svegliai che ero sulla piazzola della Firenze Nord. Tutto normale, sembrava. Erano solo le dieci di sera. Il sonno era durato troppo poco. C’era ancora da portare il bestione, l’enorme tir cassonato giù per l’Italia, fin quasi a Reggio. Lì, come al solito, avrei trovato Michele e gli altri che lavoravano. Il tempo di caricare, sistemarci la cosa da amici, e ripartire verso Castelfranco. Brusadin era stato chiaro: solo piante di qualità, forti, e che fossero tagliate da esperti, “Perché – diceva – poi finisce che muoiono subito ai primi freddi!” Ricordavo quasi mai i sogni, quella volta lì qualcosa di strano mi occupava la mente, un’immagine. Doveva essere stato questo a guastarmi la dormita. Andai all’Autogrill a prendermi tazza di caffè e panino, e anticipai di un’ora la partenza. Guardai la scritta Drago in cima al camion. Drago ero io, che poi mi chiamavo Beppe. Salii su, armeggiai tra cambio e frizione in una gran manovra, mentre bevevo le ultime gocce di caffè, e mi buttai in autostrada in direzione Sud. Per una volta, Isoradio tranquillizzava sul tempo e le code. Roma si avvicinava. Poi Napoli, Salerno e il Cilento, e via per il Tirreno, da Lamezia fino a Gioia Tauro. Poi, quella strana notte di settembre, la rividi. Dovevo essere verso Palinuro, quando l’immagine che mi aveva tolto il sonno era riapparsa. Stavolta era nitida. Esile, un vestito impalpabile, ricamato. Ornato di foglie di ulivo. Non pareva di questa terra, parlava con gli occhi. Mi sedeva di fianco, in silenzio. Io atterrito, mentre lei, con un gesto doloroso si allargava le falde dell’abito, scoprendo la pelle argentea e ferita, chiazzata di sangue. Fu lì che disse: ”Non ucciderci più”. Quasi inchiodai sul guard rail dal terrore, dovetti fermarmi. Quando ripresi il viaggio, non c’ero più con la testa. Me ne fregavo di Brusadin, dei suoi soldi, e pure delle mazzette che mi allungava Michele. Iniziavo a sentire la voce degli ulivi.
GIANLUCA IOVINE