martedì 12 dicembre 2006

NASCERE BIANCO, NASCERE NERO

Io sono nato caporale: dove ero io, era l’unica scelta. Il 1980 me lo ricordo. Anni difficili, per noi su al Monte. A tredici anni, tutto vorresti, tranne arare un campo e fare solchi sotto il sole su terreni di pietra, e invece ti trovi lì, la schiena spezzata, e tuo zio che ti grida infamie bastonandoti le gambe. Sei solo un ragazzo, ma l’odio già ti fa schiavo. Inizi a odiare il sole che sorge dai vetri delle camerate dove si dorme in tanti, e lo sbuffare del trattore tra i sentieri. Odi i cani che latrano, e i dialetti dei mille migranti che vengono qui da luoghi lontani, a litigarsi il pane. Cresci in fretta, ti spunta una barba dura, e fai a vent’anni certe rughe che in città non vedi. Rughe che neanche i pescatori di Gioia, se li hai visti mai, hanno. Perché sotto quelle rughe in fronte, c’è tanta di quella rabbia, e tanto sole amaro, che ti sorprendi non venga fuori tutta insieme, come a un cane di strada, diventando una buona volta un coltello a serramanico infilzato in qualche pancia. E forse a venticinque anni pensavo di aver capito finalmente come domarlo, tutto quell’odio. L’unica cosa che mi piaceva del lavoro era il potere. Già. Comandare un gregge terrorizzato dal lupo, e scoprire il piacere di essere io, quel lupo. Cinquanta ? Cinquecento ? Chi non si china agli schiaffi, obbedirà al coltello. Se solo l’odio non mi avesse preso, forse oggi sarei lì fuori. Era mattina, ad Avellino, in una cella frigorifera. Quando vennero ad aprirci molti erano già morti. Anche Hassan il marocchino. Giocava bene a carte, era di Essaouira. Ci salvammo Tebogo e io, Babu. Accra mi mancava, scelsi comunque Rosarno. In Ghana se dicevi Babu rispondevano scuola. Ero maestro. I ragazzini si alzavano e mi salutavano. Non avevano quasi mai le scarpe, ma le mamme ci tenevano che camicie e pantaloncini fossero pulite, appena coperte di quella polvere rossa che ti segue quando vieni a piedi dai villaggi. A 32 anni sembrava un sogno, e la brutta faccia di Mommu non mi spaventava. Mi sbagliavo. Ci radunarono di mattina nei campi, ci tolsero tutto, i documenti a chi li aveva.. Caporali ce n’erano, ma lui era il diavolo. Girava con un coltello, urlava, picchiava. Se avevi un amico colpiva lui per atterrire te. Le giornate negli aranceti della Piana erano interminabili. Il cielo aveva l’azzurro del Ghana, ma la schiena bruciava di un sole diverso. Un sole crudele, che non smetteva di ricordarci che nelle mani di Mommu eravamo niente. Sei anni lì, dormendo alla vecchia fabbrica. Alla puzza di fogna, di cibo marcio e sudore mi ero abituato. Noi anziani aiutavamo le reclute, spesso di Sofia e Tirana. A volte riuscivamo a evitargli le bastonate, raccogliendo noi il loro. Se ne accorgevano e finiva male. Una mattina diedi un po’di acqua a Dijan che stava male. Venne Mommu, negli occhi un odio nero, più della mia pelle. Sapevo che avrebbe colpito alle gambe. Quella volta non fu così. Urlò qualcosa nel dialetto dei monti. Prese il coltello, si tagliò il pollice e me lo strofinò in viso. Potevo sentire l’odore del sangue e della mia paura. Poi, una puntura, e un fuoco che mi divorava, mi sentivo sempre più debole. Vedevo il coltello piantato nel mio corpo. Prima di chiudere gli occhi lo sentì ridere. Pregai Allah che avesse pietà della sua anima empia e mi regalasse per l’ultima volta il cielo di Accra.
GIANLUCA IOVINE

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